A proposito di privatizzazione delle amministrazioni pubbliche.
Ogni volta che sento dire che per rendere efficienti le amministrazioni pubbliche occorre utilizzare metodi e metriche in uso nelle aziende private, sento mancare le basi di un sereno confronto che consenta di capire quali siano le strategie necessarie per migliorare (dove c’è da migliorare) il sistema pubblico. Ma mi rifiuto di affrontare questo tema con chi come minimo non abbia letto alcuni testi che meglio di altri chiariscono le differenze di contesti, di finalità e di meccanismi di governo; fermo restando che un’osmosi completa tra pubblico e privato è solo un vagheggiare delle idee perché non potrà mai esserci così come non è presente nei sistemi che spesso, in modo inappropriato, vengono presi come esempio di tale presunta osmosi.
Le logiche che governano i due sistemi sono completamente diverse, il privato è governato dal mercato mentre il settore pubblico è governato dal meccanismo del consenso e dell’efficacia delle politiche pubbliche, che sono alla base del sistema democratico, e sono diverse le finalità (il profitto per i proprietari del capitale in un caso, l’utilità sociale delle politiche pubbliche nell’altro). Nel settore pubblico occorre dare conto dell’utilizzo delle risorse alla comunità amministrata, nel settore privato il “proprietario” con i suoi soldi fa quel che vuole. Nel settore pubblico vi sono regole e vincoli che sono posti a tutela dell’interesse pubblico e generale, che non sono minimamente ipotizzabili nel settore privato. Stefano Rodotà lo scrisse nel volume “Il terribile diritto”: “la democrazia si ferma sulla soglia delle aziende private”, e questo è l’elemento che rende impossibile pensare ad una privatizzazione piena della pubblica amministrazione.
David Graeber scrive nel suo bellissimo libro “Burocrazia” quanto segue: “qualche tempo fa mi è capitato di passare diverse ore al telefono con la Bank of America per cercare di capire come accedere dall’estero ai dai del mio conto. Ho parlato con quattro persone diverse, ho chiamato due numeri inesistenti, ho ascoltato tre lunghe spiegazioni di regole complicate e apparentemente arbitrarie e per due volte non sono riuscito a modificare il mio vecchio indirizzo e il mio vecchio numero telefonico, che risultavano su diversi sistemi informatici. Insomma, il classico girotondo burocratico”. Penso che ognuno di noi avrà da raccontare esperienze di difficoltà di interlocuzione con aziende private, governate, almeno teoricamente, secondo i principi di efficienza e di efficacia, pieni di attenzione verso la soddisfazione dei clienti; e spesso siamo costretti a ritornare sui nostri passi, delusi proprio dall’assenza di attenzione verso i clienti, insoddisfatti per la loro inefficienza e per la scarsa efficacia dei servizi per la clientela. A me è capitato di recente di contestare una fatturazione errata da parte di un fornitore di servizi telefonici e ho vissuto sulla mia pelle la difficoltà di interlocuzione con il servizio clienti il quale, non essendo io più loro cliente, non forniva alcun supporto e non mi indicava alcuna strada alternativa. Contesto l’esistenza di una clausola contrattuale e chiedo in mille modi la prova dell’esistenza della clausola, ma inutilmente. L’unico modo per parlare con un interlocutore adeguato è la conciliazione avviata grazie al Corecom (struttura pubblica), ma in questo caso l’interlocutore si rifiuta di fornire la prova dell’esistenza della clausola contestata sostenendo che quella non era la sede per la formazione della prova e che avrei dovuto chiederla formalmente; a nulla è servito evidenziare che avevo già percorso tutte le strade possibili ma senza esito. E intanto, continuano ad inondarmi di messaggi e telefonate con offerte varie per farmi tornare alle loro “dipendenze” e se faccio presente che ho un contenzioso aperto mi rispondono che loro non ne sanno niente e non possono essermi utili. Ho impiegato circa tre anni per avere lo storno di un errato addebito dalla mia banca (anch’essa azienda privata) e ogni volta mi chiedevano di rifare la richiesta.
Melania Mazzucato nel suo libro “Lo stato innovatore” ci spiega come solo grazie agli imponenti investimenti pubblici si sono poste le basi delle significative innovazioni che nel ventesimo secolo hanno accompagnato la nostra vita e sulle cui basi si sono potute sviluppare importanti multinazionali che hanno potuto “sfruttare” le ricerche finanziate dal settore pubblico (la rete internet, per esempio).
Vorrei sintetizzarla così, burocrazia non è sinonimo di pubblico; è un fenomeno più complesso e pervasivo che riguarda tutti i contesti della nostra vita quotidiana e non può essere legata alla mera azione del dipendente pubblico. David Graeber la chiama l’”utopia delle regole”, quelle per cui le “burocrazie sono forme utopiche di organizzazione: fanno richieste che secondo loro sono ragionevoli, fissando standard impossibili, e poi danno colpa ai singoli perché non riescono a rispettarli”. Per cui ad un istituto di credito non puoi chiedere di accettare una interlocuzione con documenti firmati digitalmente e trasmessi con posta elettronica certificata, mentre nelle interlocuzioni con le pubbliche amministrazioni è ormai diventato il modo ordinario di interloquire.
I luoghi comuni sono resistenti al superamento, specialmente quando confondono competenze, responsabilità e disfunzioni organizzative (e anche normative) con un generalizzato pregiudizio nei confronti del dipendente pubblico, non di rado qualificato, con superficialità e generalizzazione, come “fannullone”. Una generalizzazione che, tuttavia, si scontra con la realtà, come quella che ancora stiamo vivendo in questi mesi, in cui sono proprio i dipendenti pubblici in prima linea ad affrontare una difficile pandemia (si pensi si dipendenti del comparto sanitario), che si presenta con prospettive incerte sia sui tempi, che sulle modalità di uscita; e allora il lessico comune trasforma in eroi coloro che assolvono il proprio dovere con “disciplina e onore”, esattamente come facevano prima e, come prima, sono accompagnati, in questo difficile percorso, anche da colleghi che sanno bene come utilizzare, in modo distorto e strumentale, gli istituti offerti dall’ordinamento per tutelare particolari condizioni personali mediante il riconoscimento di specifici diritti e tutele.
Il giudice Livatino era un dipendente pubblico, così come lo erano il professor D’Antona e il commissario Calabresi. Sono dipendenti pubblici i nostri docenti universitari, quelli a cui dobbiamo la formazione e gli insegnamenti, il dipendente dell’Agenzia delle entrate che ti accoglie e riesce a dare una risposta immediata ed efficace alle tue rimostranze, il dirigente del servizio ambiente del Comune che, di fronte ad un’istanza di un gruppo di cittadini, la esamina e si determina, nell’ambito delle sue competenze, per poi chiamarti e comunicarti l’esito dell’istanza, e così via. È poi vero, realtà di tutti i giorni, che vi sono dipendenti pubblici che incontri negli uffici e che sono perennemente senza pratiche cui attendere o che utilizzano impropriamente gli strumenti posti a tutela di specifiche condizioni personali o, ancora, che si fanno timbrare il cartellino dal collega compiacente; ed è anche vero che queste situazioni espongono le amministrazioni ad un impatto reputazionale negativo, che forgia i luoghi comuni spregiativi e fa eco ad una diffusa tendenza a generalizzare e categorizzare i dipendenti pubblici in una accezione solo ed esclusivamente negativa.
Ma quante di queste situazioni potrebbero essere limitate e superate, specie se si lavorasse per l’abbandono effettivo, non solo nelle enunciazioni di principio, della rigida gerarchia dell’ormai superato sistema del rapporto di lavoro pubblico e dei vecchi arnesi della cultura “adempimentale” che, per anni, vi hanno fatto capo, sostituendoli con un ampio, ma deciso lavoro condotto su di un’accezione di “organizzazione” che sia in grado di liberare le intelligenze di ogni suo componente (questa sarebbe la vera innovazione e il vero cambiamento), in un contesto in cui il dirigente sia in grado di gestire relazioni, di comprendere gli scenari, di gestire i gruppi di lavoro che esprimono competenze e punti di vista diversi, di mettere in gioco capacità organizzativa e un utilizzo efficace delle leve gestionali e delle risorse disponibili e, per ultimo, ma non meno importante, mettere in campo un adeguato livello di flessibilità? E allora forse si potrà comprendere che l’essere “fannulloni” è una stretta conseguenza dei contesti ambientali ed organizzativi, o ancora più spesso il frutto di una legislazione contorta, illeggibile e di difficile applicazione, che favoriscono questo atteggiamento, più che geneticamente incorporato nei singoli; e a tutti sarà capitato di vedere i cambiamenti di persone, prima etichettate come “fannulloni”, per poi essere parte di una organizzazione che li trasforma in protagonisti e parti importanti di un processo, di un servizio e di un risultato. Certo, poi, rimane sempre un nucleo di irriducibili verso i quali, comunque, l’ordinamento appresta gli opportuni strumenti sanzionatori.
Ancora una volta la recente esperienza, influenzata dall’esigenza di attivare misure per la limitazione della diffusione pandemica del virus COVID-19, ci viene incontro per dimostrare come assetti organizzativi, come il “lavoro agile”, che, per anni, sono rimasti lettera morta nel dimenticatoio degli strumenti utilizzabili nei tempi dovuti, improvvisamente sono divenuti ampiamente praticabili; questa, come altre, potrebbe assurgere a plastica dimostrazione che i cambiamenti hanno bisogno, affinché si realizzino, di intelligenze e cambiamento degli approcci culturali e che non è sufficiente introdurre un obbligo e poi collegarlo alla premialità perché si realizzi e diventi effettivo. Infatti, oggi scopriamo i punti di forza del lavoro agile e, all’improvviso, capiamo che non sempre è necessaria la presenza sul luogo di lavoro e che, invece, spesso rappresentava un inconfessabile alibi “adempimentale”.
Sgombrato il campo circa la presunta comparabilità dei due sistemi possiamo senz’altro dire che l’inefficienza alberga nel settore pubblico così come nel settore privato, e la scarsa attenzione all’utente possiamo trovarla sia nel settore pubblico che nel settore privato; poi capita spesso di incontrare nel settore pubblico persone determinate, pieni di passione, e professionalità e di orgoglio di lavorare per migliorare il sistema pubblico.
I sistemi valutativi
Sulla base di questa presunta osmosi assistiamo all’assurdo di sistemi valutativi costruiti per valutare i singoli sganciati completamente da quella che è la realtà dei contesti delle amministrazioni pubbliche. Per cui siccome sono il presupposto per l’erogazione degli istituti premiali, diventano artificiosi adempimenti. Il regime della “produttività” nel sistema pubblico ha fatto la sua comparsa più di trent’anni fa e dall’esame dell’evoluzione normativa risulta abbastanza evidente che la sua disciplina, nell’ambito dei diversi sistemi contrattuali che ha, nel tempo, attraversato, è permeata dalla reiterazione di medesimi principi che sono poi quelli che stentano, nei decenni, ad essere completamente e correttamente applicati, se non nella forma, certamente nella sostanza. Il premio di produttività, infatti, nasce nella logica, ben presente negli anni ottanta, di incrementare l’efficienza delle strutture pubbliche, nel segno di un recupero di produttività e di efficienza, funzionali a supportare il tessuto economico e produttivo del territorio. Ebbene, a giudicare gli effetti che un trentennio di applicazione dell’istituto ha prodotto, se si vuole esprimere un giudizio esente da qualsiasi retaggio culturale, ideologico o solo strumentale, la mission di tale componente economica incentivante non ha pienamente conseguito i risultati che si prefiggeva, risolvendosi, spesso, in un riconoscimento generalizzato, diffuso, indiscriminato, consolidato e lontano da ogni legame con i canoni della buona amministrazione.
Le ragioni di un generale fallimento di sistema, probabilmente, sono da ricercare in diverse direttrici: norme fortemente permeate dalla cultura adempimentale che pure vorrebbero superare, logiche di sistemi valutativi che non intercettano correttamente i risultati significativi e rilevanti, sia a causa del loro scorretto utilizzo, sia per la incertezza definitoria dei diversi livelli di misurazione e valutazione e sia per l’inadeguatezza dei presìdi, quali gli organismi di valutazione, in alcuni casi poco professionali, non autonomi e non adeguati.
Il volume di spesa che tale sistema erogativo produce, pur in presenza dei noti limiti al trattamento accessorio che lo accompagna ormai da diversi anni, continua ad autoalimentarsi e a rigenerarsi in un sistema di tendenziale autoreferenzialità, spesso non producendo alcuna marginale utilità sociale, che non sia la mera distribuzione di risorse pubbliche. A tutto ciò, poi, si aggiunga l’ulteriore profilo costituito dagli oneri direttamente ed indirettamente sostenuti per la distribuzione degli istituti premiali, funzionali all’attivazione di presidi che, molto spesso, sono a servizio della mera legittimazione del “sistema”. Appare significativo, infatti, come le risorse economiche destinate, nel tempo, a finanziarie il sistema di produttività abbia generato, nella più ottimistica delle ipotesi, limitati effetti migliorativi dell’assetto produttivo pubblico - laddove, già di per sé, il rapporto costi-benefici sarebbe tutto da esaminare e valutare scrupolosamente – ma, ancor più, tale sistema, molto radicato nella vita degli Enti, potrebbe essere ritenuto funzionale a costruire, in modo spesso simulato, un’utile motivazione ed un corretto sistema di gestione; in altri termini, quindi, appare spesso funzionale a sostenere un meccanismo organizzativo che ha la necessità di apparire legittimo e corretto proprio in funzione di rendere apparentemente utile la relativa spesa.
Un meccanismo non sempre virtuoso
A tal proposito, si pensi alla filiera di governo di questo istituto e alle modalità con le quali tale filiera viene concretamente gestita ogni anno, da trent’anni a questa parte, nella stragrande maggioranza delle Amministrazioni Pubbliche, pochissime escluse: si definiscono obiettivi che mancano dei requisiti minimali di miglioramento e con motivazioni poco convincenti; i meccanismi di controllo interno, quando la misurazione non è affidata, in modo autoreferenziale, alle medesime strutture che definiscono gli obiettivi, si attivano alla ricerca di indicatori di risultato più o meno attendibili, la cui misurazione, peraltro, non è basata su fonti stabili e certe; i risultati non sono sempre funzionali al recupero di efficienza e, quando lo potrebbero essere, costituiscono un “alibi” per concentrare l’attività solo sugli obiettivi ai quali è legata la retribuzione accessoria di natura incentivante, trascurando i restanti compiti affidati in relazione alla propria posizione nella struttura organizzativa; gli organismi di valutazione operano le proposte valutative e, quando non sono pienamente aderenti alle aspettative, vengono fatti oggetto di azioni mirate finalizzate a minarne la credibilità e l’autorevolezza; le parti contrattuali negoziano, a livello decentrato integrativo, i criteri di impianto e di gestione dell’istituto economico, con appositi incontri che, non di rado, si prolungano in interminabili diatribe che hanno la sola finalità di consentire processi di cogestione; i dirigenti sono chiamati nuovamente in campo per effettuare le valutazioni di rendimento soggettivo e oggettivo di ciascun dipendente assegnato, mediante la redazione di appositi prospetti valutativi che rassegnano il valore di ciascuno, sovente mediati da colloqui con i dipendenti stessi nel corso dei quali vengono illustrate le motivazioni che presiedono il valore indicato; la valutazione operata dal dirigente spesso origina incomprensioni e dissidi interni, soprattutto di natura comparativa, conflittualità diffusa i cui costi nessuno si è curato, ad oggi, di rilevare, ma che scomodano gli apparati interni chiamati a dirimere le questioni insorte o, in taluni casi, approdano direttamente alle aule giudiziarie; altri adempimenti, poi, vengono variamente introdotti e gestiti dalle singole Amministrazioni per la conduzione a regime di tale istituto.
Tutto da rifare?
Se i costi di un sistema che le Amministrazioni Pubbliche hanno sostenuto e continuano a sostenere ancor oggi per alimentare una parodia della produttività, intesa quale premio economico per incentivare il miglioramento della produzione nel settore pubblico, non ha consentito il recupero di efficienza, laddove necessario, non è, forse, il caso di pensare ad una nuova impalcatura che consenta l’erogazione dei medesimi valori complessivi senza appesantimenti procedurali?
Non è forse il caso di pensare a pochi e significativi indicatori in grado di valorizzare i contesti che già sono di eccellenza, senza, invano, chiedere ancora miglioramenti (a parità di risorse) ma semplicemente chiedendo di puntare a mantenere il livello di eccellenza e negoziando i target non la misurazione dei fenomeni? Amministrazioni che forniscono gli stessi servizi possono essere valutati in modo diretto sulla misurazione di fenomeni comparabili e rispetto a questi definire, laddove necessario, i miglioramenti verso cui tendere. Già oggi i parametri finanziari rendono comparabili enti della stessa tipologia; se si estendesse tale comparazione ad altri fenomeni, correlati ai servizi e ai processi presidiati dalle amministrazioni pubbliche, vi sarebbe spazio per definire quando l’amministrazione può qualificarsi una buona amministrazione o addirittura eccellente.
L’attuale sistema, invece, consente di generare valutazioni ottimali sia in enti i cui gli indicatori qualificanti sono eccellenti e sia in enti pessimi sia dal punto di vista della reputazione che dei risultati. Allora pensiamoci bene, in qualsiasi contesto se i risultati sono pessimi non vi può essere premialità, se i risultati sono ottimi, in termini di qualità dei servizi restituiti alla comunità amministrata, allora certo che vi può essere una distribuzione di risorse premiali.
Le criticità e gli aspetti sui quali agire sono: 1) aver lasciato libere le amministrazioni di definire obiettivi misurati attraverso il numero di riunioni o la predisposizione di bozze di documenti vari, senza intercettare la qualità e il livello dei servizi, anche in rapporto ad amministrazioni della stessa tipologia; 2) aver lasciato libertà nella definizione di sistemi di misurazione e valutazione a dir poco creativi che non restituiscono nulla in termini di risultati e focalizzano l’attenzione su una impossibile oggettività di misurazione di fenomeni che poi si risolvono nella mera autodichiarazione da parte degli interessati, senza che venga esercitata una adeguata azione di presidio del sistema; 3) chiedere che i risultati debbano “tendere al miglioramento della qualità dei servizi e degli interventi” non hanno nessun significato in contesti che restituiscono già risultati ottimali o addirittura eccellenti e che proprio per questo occorre premiare più di altre; 4) le priorità politiche devono essere orientate a migliorare la qualità dei servizi quando questa non è adeguata, senza che possano costituire alibi per obiettivi improbabili e comunque in modo che costituiscano un vincolo per gli organi direzione politica, come lo è, per esempio, il rispetto degli equilibri di bilancio 5) l’utilizzo di algoritmi sofisticati costituiscono una trappola per i sistemi valutativi perché non danno la giusta attenzione agli aspetti effettivamente rilevanti; 6) i sistemi di misurazione delle performance devono essere costruiti quali strumenti di supporto alle decisioni e devono focalizzare l’attenzione su pochi fenomeni significativi da misurare e interpretare, sulla loro coerenza interna, sull’affidabilità delle misurazioni, sulla tempestività dei dati.
Fonte: blOgLIVERI di Luigi Oliveri